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A proposito di burn-out e medicina narrativa

A cura di Andrea Tomasini

Anni fa mi misi in testa di raccogliere le testimonianze di chi aveva affrontato l’emergenza AIDS sin dall’inizio. Sfidando pregiudizi e fronteggiando il fatto che ci si doveva confrontare con una malattia infettiva nuova, rapidamente degenerativa e a esito infausto: una generazione di medici,  ricercatori e infermieri affrontò la crisi che in breve tempo divenne planetaria. Poter documentare questa Storia, fatta di tante storie di curanti e curati, di persone che cercavano una soluzione per la vita, mi sembrava potesse esser utile per trarne un qualche insegnamento relativo al rapporto tra scienza e società, lavoro di rete tra mondo della scienza e attivismo sociale, impegno personale e coscienza politica per fronteggiare quella che in breve di configurava come una infezione capace di minacciare e condizionare la sopravvivenza dell’uomo sul pianeta. Ho avuto la fortuna di poter raccogliere testimonianze da chi è stato davvero in prima linea sin dall’inizio, chi ha visto i primissimi casi al mondo e ha voluto fare della lotta contro l’AIDS la ragione dell’impegno della propria vita. L’agente causale dell’AIDS si sa – è l’HIV, un retrovirus, cioè una stringa di informazioni che per poter esser produttive di conseguenze devono poter esser comunicate attraverso una relazione che passa certo tra corpi ma che realizza anche storie, narrazioni. Una di queste mi è affiorata in mente ascoltando a Roma Deborah Starr psicologa alla Columbia University, dove lavora con Rita Charon, per animare il seminario SIMeN sul burn-out– con un’ottica correttamente orientata a descrivere il problema e a individuarne nelle sue stesse pieghe le risorse (anche narrative) per affrontarlo.
Nel 1995 si era al picco dell’epidemia e non si vedeva luce alla fine del tunnel. L’aumento di molecole disponibili e le evidenze dell’eziopatogenesi dell’infezione nonché lo studio del ciclo replicativo del virus suggerivano di attaccare l’HIV con una terapia di combinazione, tanto più che le monoterapie avevano dato esiti d’efficacia transitori e sostanzialmente deludenti. Ho racconti dell’epoca di dialoghi tra colleghi medici in cui l’oncologo compativa con approccio solidale l’infettivologo che doveva confrontarsi con un’emergenza sanitaria cui non sapeva dar risposta e la gente moriva. In molti in quegli anni facevano esperienza di burn-out, taluni sfiorando la decisione di cambiare professione o specializzazione – tale la sensazione di impotenza, incapacità a controllare il proprio lavoro, impossibilità di percepire esisti positivi nel profondere il proprio impegno e le proprie competenze. Una condizione di stress cronico nel proprio lavoro – e uso le parole della prof Starr nella sua lezione al seminario SIMeN – di cui il soggetto non è responsabile; non una malattia (disease) ma una pressione continua relativa alla propria occupazione che conduce a una depersonalizzazione. La tragedia è – spiega Starr – non trarre più aspettative di soddisfazione dal proprio lavoro, sentirsi stanchi, esausti e incapaci di controllare processi ed esiti della propria occupazione, senza alcuna possibilità di gestirla con successo. Mark Weinberg, biologo, professore alla McGill University di Montreal, è stato un ricercatore che con passione e competenza più si è speso per rendere l’infezione da HIV una condizione clinica cronicizzabile, non quindi a invariabile esito infausto. Mark è stato anche un buon amico, da poco è scomparso affogando nel mare di Miami – ma questa è un’altra storia. Nel ’95, insieme a molti altri ricercatori stava lavorando a uno studio clinico denominato INCAS che sarebbe poi entrato nella storia della lotta contro l’HIV. Il protocollo mirava a valutare l’efficacia di una terapia di combinazione di più farmaci antiretrovirali associati tra loro e con diverso meccanismo d’azione, misurando classicamente i parametri dei marker surrogati: numero dei CD4 per mm3 e carica virale nei linfonodi. Quest’ultimo parametro andava valutato mettendo in coltura cellule. Mark era responsabile di questa parte dello studio. In quegli stessi anni – e in quello stesso studio – lavoravano altri due grandi clinici amici Stefano Vella dell’ISS e Julio Montaner, quest’ultimo presso l’università di Vancouver. In occasione di una delle riunioni periodiche di verifica delle procedure per valutare l’andamento e i risultati provvisori dello studio Mark si trovò di fronte a una difficoltà imprevista che gli fece vivere con profondo malessere e imbarazzo l’avvio della riunione. A tal punto che prese coraggio e chiese a Montaner – primo autore dello studio – di potergli parlare in privato. Qualcosa era andato storto nelle procedure di propria competenza – era la prima volta che gli accadeva, ma era accaduto doveva dirlo al direttore dello studio perché Julio era un suo amico e perché Mark era abituato a prendersi le propri responsabilità, non essendo certo un novellino e soprattutto perché in ballo c’erano la questione della lotta contro l’HIV e il suo prestigio personale, sia pure fiaccato da stress e delusioni. “Non so cosa sia successo, ma il lavoro devo rifarlo. Devo ricominciare perché qualcosa ho sicuramente sbagliato ed è necessario capire cosa”. Julio fatica a crederci, chiede a Mark di spiegarsi meglio: “Cosa è successo?”. “Purtroppo il virus non è cresciuto nelle colture delle persone in trattamento – spiega Weinberg- per cui non abbiamo dati per quantificare la carica virale del braccio con la terapia d’associazione”. Così nell’attimo successivo s’è affacciata l’unica ipotesi che in una mente serena sarebbe dovuta esser l’unica ad affiorare: la terapia aveva funzionato ed era per questo che la carica virale non era dosabile. In silenzio si sono guardati, un attimo che sembra lungo a entrambi, ma è stato un attimo. Si sono parlati, hanno ascoltato le loro ansie e i loro dubbi, se li sono raccontati. Si sono riconosciuti l’un l’altro chi erano –scienziati capaci in lotta contro un problema enorme sino ad allora ingestibile, ma erano uomini competenti, capaci di lavorare in modo corretto espletando le procedure e interrogandole a mente sgombra. “Avevamo fatto bingo e non ce ne eravamo accorti – mi ha raccontato Weinberg incredulo di come sia stata possibile credere a un errore e non a un risultato – non ci avevo pensato… era cioè stato più facile e naturale pensare a un errore che, non a una risposta efficace al protocollo, alla ipotesi di lavoro che io stesso avevo formulato e secondo cui stavo lavorando”.
Questa storia mi pare possa fungere da calco narrativo del seminario di Starr su burn-out e medicina narrativa – con alcune aggiunte necessarie. La prima concerne la natura stessa della medicina narrativa che costituisce –ha spiegato la Starr – un metodo innovativo per costruire capacità narrative nel soggetto che, formato a riconoscere le storie nell’ascolto dell’interlocutore, le interpreta e le utilizza per elaborare forme di connessione e di reciprocità nell’interazione tra curante e curato. Reciprocità e connessione sono alla base dell’approccio interpretativo, che pone attenzione al linguaggio e alla struttura narrativa del dialogo. A me verrebbe da chiosare che come accade per l’etnografo, che scrive sul campo il proprio diario di ricerca e poi “tornato a casa” scrive il proprio lavoro “a distanza” riflettendo e ricostruendo gli effetti dell’essersi fatto coinvolgere dall’altro e della sua cultura, allo stesso modo la scrittura costituisce elemento centrale per la medicina narrativa. Scrivere – la prassi di scrivere – insegna al soggetto a raffinare le proprie capacità riflessive, contribuisce a chiarire in termini di consapevolezza la propria identità professionale –che per sua natura, essendo un processo, è narrativa- e la pone di fronte alle grandi questioni dell’assistenza. Scrivere, ha insistito Starr, costituisce il modo migliore per approfondire le proprie esperienze per non perdere nulla del mondo: è, insomma, un training di intersoggettività perché sollecita l’accettazione della molteplicità dei punti di vista. In sintesi il binomio è: trust and care.
Cosa hanno di fatto Weinberg e Montaner quando si sono accorti del risultato? Si sono confrontati su quello che stavano facendo e su come lo avevano fatto, sulle ragioni culturali del proprio impegno e gli ostacoli che si frapponevano. Raccontando del disagio si sono presi cura reciprocamente l’uno dell’altro – e la medicina narrativa, ha detto Starr è “caring of self”, prendersi cura di sé. “La connessione è la chiave”, perché “il benessere non è uno stato d’animo, ma uno stato d’azione”, ha proseguito Starr sottolineando che il modo migliore per “prendersi cura del paziente è prendersi cura di chi si prende cura”. Accade così che dalla sensazione di naufragare ci si possa accorgere che… si è approdati a terra.

L’autore

Andrea Tomasini
57 anni, due figli, oscilla tra Roma e Spoleto dopo una vita passata a inseguire libri e virus per il mondo. Lavora con le parole – dette, lette e ascoltate-, la scrittura e la curiosità. Si occupa di medicina narrativa dagli anni 00 collaborando con associazioni di pazienti e società scientifiche in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: “Alla luce del sole. Storie di esperienze vissute da persone sieropositive” (2009); è co-autore della voce “Medicina Narrativa” per l’Enciclopedia Medica Italiana -III aggiornamento della seconda sezione, USES Edizioni Scientifiche UTET Scienze Mediche (2008); “HIV-AIDS: storia, cura, prevenzione. Una epidemia globale tra passato e futuro” (2016).

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