Lo facciamo per il suo bene

Per insegnare comunicazione in modo efficace non basta parlarne, spiegare, citare evidenze, ecc., ma è necessario simulare e questo implica molto lavoro perché per dare un feedback allo studente è necessario rivedere e valutare con attenzione le registrazioni dei role-play.

Ieri ho rivisto due simulazioni per valutare la comunicazione con la Kalamazoo Consensus Statement Checklist, il modello che utilizziamo nella nostra formazione. Il punteggio alla checklist si basa sull’esecuzione di compiti comunicativi ritenuti essenziali nel colloquio clinico, ma non valuta alcuni aspetti come il contenuto non verbale della comunicazione o alcuni contenuti verbali. Per questo oltre a calcolare il punteggio, spesso annoto sul form particolari che emergono dai punti attribuiti dalla checklist. Ieri entrambi gli studenti, due futuri medici al quarto anno di medicina, hanno usato un’espressione che non ho potuto fare a meno di annotare: «lo facciamo per il suo bene». Questa frase ha richiamato nella mia memoria un episodio accadutomi alcuni anni fa.

Alla fine degli anni 90 ho iniziato a usare la carta di credito. In quegli anni era usata pochissimo e il mio volerla usare sempre appariva quasi come una stravaganza. All’estero spesso non mi chiedevano neppure la firma. In Italia ad un certo punto, oltre a chiedermi la firma, hanno iniziato a chiedermi un documento di identità. Poi piano piano questa “usanza” è iniziata a passare fino a che era rimasta una sola catena di supermercati che chiedeva il documento di identità. Un giorno all’ennesima richiesta del documento lamentai con la cassiera: «Certo non vi fidate molto dei clienti…». «Lo facciamo per il suo bene» rispose convinta. Questa risposta mi irritò al punto che risposi determinato: «Allora smetta subito di occuparsi del mio bene. So prendermene cura da solo!» e chiusi questa inutile discussione.

Quale è il mio bene? Questo chiederò ai due studenti quando darò il feedback. Esiste una materia di studio nel corso di laurea in medicina dove si impara quale è il mio bene? Questo atteggiamento, retaggio di un paternalismo superato a parole, ma vivo e ancora troppo presente nei medici, nasce dall’idea che esiste un bene del paziente assoluto e indipendente dalla sua volontà, dalle sue aspirazioni e dai suoi desideri. Ancora oggi nei giovani studenti viene inculcato il germe di una convinzione: siamo noi che deteniamo ogni sapere sulla salute dei pazienti e siamo noi a decidere ciò che è bene e ciò che non lo è per i pazienti.

Certo non potrò dire ai due studenti di smettere di occuparsi del bene dei pazienti: questo sarà il loro obiettivo professionale primario. Dovranno solo capire che l’atteggiamento paternalistico che il genitore usa con un bambino, non è adeguato per il paziente. Ma se non trovano il bene del paziente in nessun esame e in nessun libro, avranno bisogno di trovarlo altrove.

La relazione con il paziente e la narrazione che il paziente fa della sua malattia sono l’unico modo per conoscere cosa per il paziente è bene e cosa non lo è. Se i due studenti, domani due medici, sapranno ascoltare le storie stimolando i pazienti al giusto racconto della storia, diventeranno parte positiva della narrazione che il paziente farà della sua storia e non come semplici comparse, ma come coprotagonisti affianco al paziente che potrà decidere da solo cosa è bene e cosa non lo è fra le possibilità che loro potranno offrirgli.

Sergio Ardis
medico e docente di comunicazione

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