VIAGGIO NEL MONDO COVID – racconto di una fisioterapista

Siamo rientrati dal viaggio in Sudamerica in una Italia completamente diversa da come l’avevamo lasciata. Siamo tornati a casa due giorni prima del previsto, un po’ perchè stavano iniziando a cancellare parecchi voli e un po’ perchè ormai il nostro stato d’animo non era più compatibile con una vacanza. Troppe notizie preoccupanti ci giungevano da oltreoceano e abbiamo preferito rientrare il giorno dell’ufficializzazione dello stato di pandemia.
Il benvenuto in Italia ci è stato dato dalla polizia che ci ha accolti a Fiumicino con un’autocertificazione da compilare. L’aeroporto era praticamente deserto ad eccezione del banco Alitalia. Lì, in coda, i passeggeri bloccati nel limbo di Fiumicino attendevano con ansia un cambio biglietto per poter tornare a casa.
Il volo Roma Milano è stato alienante, volo piuttosto deserto costituito per la maggior parte dal personale delle compagnie aeree che tornavano alla base. Tutti o quasi indossavano una mascherina e le distanze erano ben mantenute.
Una volta rientrati a casa abbiamo avuto una pausa di tre giorni per sedimentare il fatto che un virus stava mietendo vittime in particolare nella nostra regione (la Lombardia) e che per tale motivo vigeva il divieto di uscire di casa.
Sensazione strana la nostra: dopo aver guidato per chilometri nelle deserte strade cilene e argentine, volato da El Calafate a Ushuaia fino a Buenos Aires per poi tornare in Italia con uno degli ultimi voli autorizzati a partire ci siamo ritrovati in pieno lockdown dove si poteva uscire da casa solo per necessità, salute ed esigenze lavorative.
Nel nostro caso, fisioterapisti di un grosso ospedale, abbiamo ripreso l’attività lavorativa incerti sul da farsi perchè nonostante le notizie date dai nostri colleghi, non avevamo idea di cosa avremmo trovato una volta rientrati.
L’ospedale al nostro arrivo era insolitamente silenzioso, le attività ambulatoriali non urgenti erano state sospese e pochi pazienti esterni accedevano alla struttura.
Il nuovo luogo di incontro erano le scale perchè pochi prendevano l’ascensore preoccupati dal virus, non importava dover fare sei o sette piani di scale, tutto pur di non essere contagiati.
L’ospedale era cambiato, alcuni reparti chiusi per lasciare spazio ai reparti covid e, nel corso delle settimane, ha continuato a cambiare tanto da avere un intero blocco dedicato ai pazienti affetti da coronavirus. Via i reparti storici che avevo conosciuto in questi anni e che avevano fatto la storia dell’ospedale, chiusi per lasciare spazio ai reparti covid che spuntavano dall’oggi al domani.
È stato necessario che i medici e gli infermieri abbandonassero le loro specializzazioni per occuparsi di una malattia sconosciuta di cui non si sapeva cura, prognosi e livello di contagiosità.
Era il periodo in cui iniziavamo a comparire al Tg e sui social i volti stremati e deturpati dalle mascherine, volti ansiosi di persone che avevano dovuto lasciare la propria casa e le proprie famiglie per paura di contagiare gli affetti cari. Inoltre, si iniziava anche a dare un volto a coloro colpiti dal covid: colleghi malati, alcuni a casa con febbre alta, altri ricoverati in terapia intensiva..
In tutto ciò noi fisioterapisti non avevamo ancora un ruolo in questa nuova riorganizzazione, ci sentivamo alquanto impotenti, gli eroi giustamente erano considerate le altre categorie, noi potevamo dare un supporto ma mai abbastanza.
Ma un giorno, superata la primissima fase di tsunami è stato il momento in cui si è iniziato a ragionare su come noi fisioterapisti avremmo potuto dare il nostro contributo all’emergenza covid.
Smistati nei vari reparti dalla terapia intensiva alla medicina dovevamo solo fare il nostro ingresso e cercare di entrare dentro un ingranaggio che andava a mille all’ora e di cui conoscevamo ben poco.
Non dimenticherò mai il mio primo ingresso in medicina covid. La porta del reparto era ovviamente chiusa ed era necessario citofonare per accedere al suo interno, una porta costellata di cartelli che imponevano l’ingresso  solo se dotati dei dispositivi di protezione individuale.
Io, con la mia divisa, la mia mascherina chirurgica mi sentivo alquanto nuda… Una volta entrata mi sono ritrovata catapultata in un secondo a Kabul, stupita dall’intensa attività al suo interno e dalla moltitudine di persone che occupavano il corridoio. Infermieri, oss, medici chi li avrebbe potuti riconoscere dietro divise di ogni colore, camici e visiere che nascondevano il volto.
Intimorita di non sbagliare alcuna procedura ho fermato il primo operatore che passava per avere delucidazioni sulla vestizione e come risposta ho ottenuto un’alzata di occhi al cielo, probabilmente per essere l’ennesima persona a cui dover spiegare le procedure di ingresso nelle camere. Fortuna che è venuta in mio soccorso un’infermiera ben più paziente che mi ha chiarito le idee. Perchè per quanto fossi stata formata tramite video esplicativi, un conto è la teoria, un conto la pratica.
In seguito scoprirò che ogni reparto covid ha usi e costumi differenti in base anche alla struttura del reparto. Nel mio caso non essendoci una stanza dedicata alla vestizione mi sono ritagliata un angolino dove potermi vestire con tranquillità per ridurre al minimo gli errori.
I dispositivi di protezione individuali sono parecchi e una volta conosciuti impari ad apprezzare alcuni modelli e odiarne altri. I camici potranno essere di diversi colori ma sempre troppo grandi per me. Alcuni sono fatti di un materiale abbastanza traspirante, altri sono dei veri sacchi di plastica che ti fanno sudare appena li indossi.
FFp2, FFp3, valvola o non valvola, elastici che tirano, alcune mascherine aderiscono bene al viso, altre sono troppo grandi, altre ti trapanano il naso… E come tutti sanno, le mascherine all’inizio erano ben poche e quindi da utilizzare con parsimonia.
Occhiali o visiera ognuno ha le sue preferenze. Se la visiera è troppo lunga, il rischio è che quando abbassi il mento picchi contro il petto e mentre stai lavorando non è proprio il massimo.
Ho da subito preferito gli occhiali ma quelli giusti, quelli che non scendono sul naso appena ti abbassi anche perchè una volta in camera del paziente non puoi più toccarti il viso.
Ulteriore problema degli occhiali è quando si appannano, entri in stanza, ti sembra di stare sott’acqua e sai già che sarà una mattinata faticosa.
Infine ricerca della cuffia, alcune bianche, alcuni verdi, alcune simili a bandane che per quanto tu cerchi di inserire i capelli al suo interno ti troverai con qualche ciuffetto fuori.
E naturalmente guanti e calzari, guanti da cambiare, guanti da indossare uno sopra l’altro, guanti da igienizzare. E così scatta il rito del: entri in stanza, esci dalla stanza, maniglia interna sporca, maniglia esterna pulita perciò mai aprire e chiudere la stessa porta con lo stesso guanto.
Superate però le difficoltà legate ai dpi una volta dentro la stanza ti ritrovi davanti a un paziente che covid a parte è come tanti altri, con le sue difficoltà e le sue fragilità.
Il nostro aspetto dentro una stanza covid è simile a un’astronauta e per le persone disorientate nel tempo e nello spazio questo rende tutto più difficile perchè si perde quella parte di sensibilità e umanità di quando si vede il paziente e si sorride.
Ma ho scoperto una cosa: si sorride con gli occhi e questo è più che sufficiente. Non avevo mai ricevuto dai pazienti così tanti complimenti sulla mia bellezza come nel reparto covid ed è ironica la cosa visto che ero coperta dalla testa ai piedi. Ma i pazienti mi ripetevano che con quegli occhi e quel portamento dovevo essere per forza bella. Verità o meno, lavorare così bardati è faticoso fisicamente ma si riesce comunque a creare un legame con il paziente.
E fu così che il momento fisioterapia nel reparto è diventato un appuntamento importante per i malati. In primis perchè rimettersi in sesto, riprendere a camminare consentiva loro di tornare a casa nel più breve tempo possibile e per persone isolate nelle stanze era anche un momento di dialogo. Farò tesoro delle storie raccontatemi dai miei pazienti, dal loro passato al momento in cui sono arrivati in ospedale: ascoltare le ansie, le paure, le preoccupazione di persone fa parte del nostro lavoro.
Trascorrere la mia mattinata lavorativa in un reparto covid è poi diventata routine: vestizione e svestizione sono diventati gesti automatici. Si è più rigorosi nella procedura e meno preoccupati. Si va alla ricerca del camice più fresco, della mascherina più adatta al proprio viso, della cuffia che possa coprire tutti i capelli.
Passa il tempo il reparto si svuota, si ricomincia a vedere per i corridoi il personale sanitario che si era ammalato di covid ma che è anche guarito e che rientra al lavoro.
E infine arriva il giorno in cui il reparto chiude perchè il numero di pazienti ammalati è sempre meno. L’ospedale riprende il suo assetto, riaprono i classici reparti e piano piano si ritorna alla vecchia quotidianità.
Sono stata felice di lavorare in questa emergenza sanitaria perchè l’essere stata di supporto e aver fatto in modo che qualcuno potesse rientrare a casa ha superato di gran lunga le ansie e le preoccupazioni di potermi ammalare o di fare ammalare qualcun altro.
A suo modo anche questo è stato un viaggio perchè mi ha permesso di entrare in un mondo sconosciuto permettendomi di relazionarmi con medici e pazienti che altrimenti non avrei conosciuto.
Sono cresciuta professionalmente ed emotivamente e attendo di riposarmi da questo periodo facendo una vacanza in un luogo speciale che non sia per forza al di fuori dell’Italia.
Viviamo in un Paese incantevole.

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