Sembrava andasse tutto bene

Le vacanze di Natale erano passate da poco, i giornali riportavano la notizia di una strana polmonite che colpiva gli abitanti di una regione della Cina, sembrava che il problema non ci riguardasse.
Alla fine del mese di gennaio, mentre eravamo ancora impegnati con una piccola epidemia provinciale di morbillo in adulti (circa 70 casi) e con la curva epidemica influenzale in salita, cominciarono ad arrivare le prime direttive dal Ministero della Salute per la sorveglianza dei viaggiatori provenienti dalla Cina. I primi ad arrivare furono dei professori d’orchestra di ritorno da una tournée di concerti in Cina.

Pensai bene di attivare un gruppo di lavoro formato da Igienisti non solo esperti, ma anche dotati di una particolare capacità di comunicazione ed empatia. Queste erano le caratteristiche che dovevano avere per condurre accurate indagini epidemiologiche ottenendo la fiducia dell’interlocutore.

Ai professori d’orchestra seguirono i cinesi che rientravano dai festeggiamenti in Patria del capodanno cinese.

Il meccanismo era ormai rodato, riuscivamo a rintracciare rapidamente i viaggiatori, a sottoporli alle misure di quarantena cercando di informarli di tutte le misure che dovevano adottare durante quel periodo per evitare la diffusione di un eventuale malattia ed a sottoporli agli accertamenti clinici al primo insorgere di sintomi sospetti. Tutti i casi sospetti fino a quel momento erano risultati negativi.

La situazione sembrava sotto controllo e i primi casi del Nord Italia ci sembravano più lontani di quelli cinesi. Febbraio non aveva riservato un inverno particolarmente freddo ed era trascorso rapidamente con gli impegni e i problemi legati all’organizzazione delle misure per fronteggiare i rischi dell’arrivo di questa nuova malattia.

Anche quella giornata lavorativa era stata lunga ed impegnativa, finalmente sì ritornava a casa. Lo squillo del telefono non lasciava presagire niente di buono ed infatti arrivava la notizia del primo caso accertato di Covid19.

Questa volta il caso andava affrontato subito e per le prime attività non bastava un solo operatore. Decisi così di recarmi personalmente nell’ospedale dove era stato ricoverato il paziente e chiesi l’aiuto di altri Collaboratori che subito accorsero per avviare l’indagine epidemiologica. Riuscimmo subito a contattare il paziente che si dimostrò particolarmente collaborativo (fatto non scontato). Il suo racconto ci fece subito capire che rintracciare tutte le persone con cui era stato in contatto non sarebbe stata cosa semplice. Aveva un lavoro che lo portava ad essere a contatto con il pubblico ed una vita sociale piuttosto attiva. Decisi così che per quella notte avremmo avvertito solo i contatti familiari e quelli più a rischio. A notte fonda interrompemmo il lavoro e preannunciai ad Adriana, Giuseppe, Marcello e Valerio che il giorno dopo avremmo dovuto riprendere con l’aiuto degli altri. Così feci ma mi resi subito conto che non sarebbe bastato. Troppi i contatti da rintracciare e troppe le telefonate di sorveglianza da effettuare. Decisi così di rinforzare la squadra con altri Operatori di tutte le categorie professionali che potevano dare un contributo utile. Nel frattempo improvvisamente i telefoni, non solo quelli dedicati, parevano impazziti.

Agli Operatori arrivavano le più diverse richieste e segnalazioni a cui spesso non si riusciva a dare risposta.

Da quel momento la squadra è diventata famiglia! E dalle famiglie di ciascuno arrivavano i segni di solidarietà per il lavoro svolto, coccole dolci e salate che aiutavano a superare i momenti difficili. Passavamo insieme oltre 14 ore di lavoro al giorno per sette giorni a settimana. Sembrava non bastasse mai. I contatti con medici di base, gente comune, Operatori 118 erano incessanti con quesiti a cui spesso non vi era risposta.

L’eccesso di telefonate mandava in blocco centralini e telefoni cellulari. Gli uomini e le donne del gruppo alla fine della giornata in cui, oltre ad andare a caccia delle cause dei contagi, dei possibili contagiati e di sorvegliare gli isolati, erano stremati. Nei loro occhi leggevo lo scoramento, il dolore assorbito da soggetti ammalati, dai loro cari, da chi era sopravvissuto al proprio congiunto, da chi chiedeva di dare un ultimo saluto al proprio caro deceduto ricevendone un rifiuto.

Nel frattempo il gruppo si arricchiva di nuovi professionisti che volontariamente offrivano il loro contributo anche per l’avvio di attività piuttosto rischiose come l’esecuzione di tamponi a domicilio. 

Ed è questa un’altra sorpresa che la pandemia mi ha regalato: scoprire Operatori che non avrei mai creduto capaci di rimettersi in gioco; avere la conferma che altri approfittano delle circostanze per eclissarsi; accorgersi che altri ancora, apparentemente solidali, ostacolano le iniziative. Due mesi e mezzo d’incessante lavoro, di paure, di ansie, di notti insonni, di sconforto per le morti che non si era stati in grado di evitare, di gratificazione per i risultati che i dati ci raccontavano.

Un’esperienza incredibile ricca di emozioni che mai avrei pensato di vivere, che non è ancora finita e che, tutto sommato, mi consente di dire che “per ora è andata bene”.

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