Il fagiolo, ovvero la mia dicotomia durante la pandemia.

Come un fagiolo, composto di due parti identiche, così son stati i miei giorni durante la pandemia di SARS COV 2.

Da una parte, come medico geriatra ospedaliero, l’impegno quotidiano, pur se non in primissima linea, per garantire cure ed attenzioni ai pazienti che mi sono affidati con una attenzione particolare ad evitare contagi, a prevenire possibili fonti di contagio, a mettere in atto, oltre ai quotidiani gesti di “buona pratica medica”, anche misure “nuove” come il distanziamento, la riduzione di contatti e di parole con i pazienti, la minor presenza di rapporti diretti con i familiari, utilizzando il telefono o altri mezzi.

Questo in una scenario che di gorno in giorno cambiava con spostamento, accorpamento, riduzione dei postiletto del reparto ove opero, con misure che diventavano sempre più “strette” nel ridurre  contatti per evitare contagi, con una serpeggiante paura che potesse arrivare un paziente zero che facesse precipitare l’intero assetto di cautele e precauzioni in rischio certo di malattia.

A questo si è unita una formazione anche scientifica relativa a conoscenze sempre piu’ sicure circa la pandemia in atto, le possibilità di diagnosi e cura, l’importanza di alcune semplici misure fondamentali per ridurre la diffusione del virus come il lavarsi le mani ed usare una mascherina chirurgica e questa formazione “sul campo” e’ diventata bagaglio culturale ed insieme umano, una seconda divisa.

L’altra parte del fagiolo viveva fuori dell’ospedale: come uomo , compagno, padre, figlio, amico ho avuto  un compito impegnativo nel passare da una situazione a rischio pure se “protetta”, ad una condizione in cui il rischio si accompagnava alla paura, all’incertezza, al trovarsi davanti un mostro invisibile, silenzioso ma potenzialmente letale, sentita da familiari e congiunti.

Cambiarsi i vestiti arrivando a casa, utilizzare misure di igiene e precauzioni, fare attenzione nel compiere i vari gesti quotidiani entrati ormai nella consuetudine, mi ha fatto passare da una divisa ad un’altra, da una vestizione e svestizione all’altra.

Ma questo comportamento necessario si è anche associato a un secondo “abito” non fisico, un secondo modo di vivere che non solo ha causato un maggior stare in casa, una riduzione dei contatti con familiari ed amici, una perdita di quelle piccole gioie quotidiane nel vivere la bellezza dello stare insieme in due, di godere di un panorama o di un tramonto, di avere la gioia di sentire addosso il vento, il sole, riducendo il tutto a file per fare la spesa, a pochi spostamenti per necessità importanti, a fare brevi visite ad una madre molto anziana, alla mancanza di quel modo colorato, anche chiassoso ma vitale che ci circonda.

L’inventiva non è mancata: si è attrezzato un piccolo balcone per stare fuori anche a cena, si è utilizzato il televisore come uno schermo cinematografico per stare tutti insieme, si è attrezzata una parte di una stanza come fosse una palestra e si è cercato di godere di ogni parola e di ogni gesto, ogni ora e ogni giorno come un dono speciale, arricchendolo con un fiore, una canzone, un cioccolatino.

Eppure questa parte del fagiolo ha sentito una sofferenza, un dolore, un disagio: quello letto negli occhi della mia compagna e dei miei familiari davanti alle immagini che provenivano dai vari telegiornali, dai numeri delle vittime e dei contagi, dalle fake news che risolvevano il complesso quadro della pandemia con  soluzioni e interpretazioni senza razionale e d’ effetto.

Tutto questo ha originato paura: una paura sorda, forse nemmeno dichiarata o urlata ma presente: io non ero solo uomo, compagno, padre, congiunto ma anche “l’esperto”, il detentore di informazioni sicure, di un potere che non poteva “non sapere” ma l’esperto in un caso come questo non ha armi diverse o conoscenze definitive.

Il medico si è così spogliato del camice, ha rimosso le protezioni ed i guanti per condividere le paure, i dubbi, le criticità che nei giorni affioravano tra le pareti di casa: solo il mettersi in ascolto, il gettare via la certezza che nasce dal dato scientifico portato come dogma, il saper accogliere le credenze di coloro che sono legati a te, diviene uno stile per crescere insieme.

Ragionare e parlare insieme pur partendo da punti anche lontanissimi porta comunque ad un arricchimento, accogliere le paure anche irragionevoli non rende meno validi ma forse più credibili, poter dire: “non lo so” fa davvero bene a chi lo pronuncia e a chi lo ascolta: fa la differenza, la differenza tra stare comunque  sempre da un lato della scrivania e quella di mettersi vicino, dallo stesso lato.

E questo senza avere la pretesa di saper dare la risposta a tutto ma la consapevoleza di poter fare un cammino insieme, ancora più uniti.

Così alla fine del lockdown, le due metà del fagiolo si sono trovate unite, anzi indistinte ed il fagiolo, pur senza essere magico, ha vissuto e vive la magia di stare bene con altri fagioli, pur nella difficoltà della pandemia.

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