Far emergere il meglio, affinché andrà tutto per il meglio

Di pregiudizi ce ne sono parecchi, i più disparati: sui cinesi e sui meridionali,
da quelli sui preti a quelli sugli islamici, su neri e omosessuali. Nessuno è
immune dai difetti, tra i quali il “virus” di guardare sempre quelli degli
altri, dimenticandosi che il miglior modo di modificare la società in meglio è il
continuo miglioramento di se stessi. Se nessuno è perfetto, dovremmo fare tutti
autocritica o, come si usa dire, “un passo indietro”. Sarebbe “un passo in
avanti” per apprezzare quelle differenze che sembrano dei limiti agli occhi
dell’altro.

Un po’ di anni fa un negoziante al dettaglio di articoli elettrici, per
persuadermi sulla migliore qualità degli apparecchi che esponeva rispetto a
quelli smerciati in un centro all’ingrosso, mi disse: “Qua non vendiamo roba
cinese!” Una sua strategia di marketing si esauriva con questa battuta
ingenerosa verso una categoria di individui a lui estranea, ma che riteneva efficace
e condivisibile da gente avveduta e diffidente del “sottocosto”.

Se una pandemia fosse un male inevitabile per combattere le “intolleranze”, allora
non sarebbe innescata dal peggiore dei “virus”.

Ho rivisitato il mio impatto con la
pandemia da nuovo coronavirus durante i giorni del lockdown, per richiamare
ricordi ed emozioni, rimuginare suggestioni, riprendere personali ragionamenti,
condivisibili o meno, per tener viva l’attenzione verso un’esperienza insolita,
molto intensa, che potrebbe restare nella memoria della generazione presente e
di quelle future come la “pandemia del secolo”. Un’esperienza così amara andrebbe
non solo ricordata, ma tramandata per non far cogliere nessuno di sorpresa se
un domani, in un lasso di tempo indefinito, se ne ripresentasse un’altra, pur
non auspicandolo. Da adesso in poi spero saranno scongiurate o circoscritte. La
storia purtroppo ci tramanda che non è stata la prima volta, ma non sarà nemmeno
l’ultima. Prima o poi l’umanità potrebbe ritrovarsi nel tunnel dell’indesiderata
convivenza con un nuovo agente eziologico in grado d’innescare un’emergenza
sanitaria che di solito, fino e a oggi, ha seguito un caratteristico “copione”:
l’improvvisa comparsa del misterioso patogeno, delle cause, difficili da
accertare, che ne hanno indotto la trasmissione dall’ospite naturale o
dall’animale contagiato all’uomo e che potrebbero spingerlo al salto di specie,
la rapida propagazione dell’infezione e la sua lenta regressione, la ricerca di
un vaccino da quando il biochimico Luis Pasteur rese disponibile il primo preparato.

Se una malaugurata prossima epidemia fosse
da ricondurre a una causa già dimostrata in passato, allora staremmo messi
male, più che fisicamente innanzitutto mentalmente; vorrebbe dire che la “lezione
in corso” non sarà stata compresa, e la botta potrebbe essere peggiore! Se
l’Italia ha ricevuto la stessa legnata che avrebbe solo pestato un piede al
gigante cinese, già da ora gli effetti li smaltirà più lentamente.

“Perché il mondo ci possa appartenere,
dobbiamo pensare che ci desideri. Soltanto ciò che ci desidera è nostro”.
Questo è un aforisma del regista e scrittore cileno Alejandro Jodorowsky,
riportato tra le pagine di un suo libro edito nel 2005 e che val la pena
citare. Dopo 15 anni è ancora così difficile nutrire quel desiderio? Prima o poi l’obbligo
della “museruola” era inevitabile!

Non vorrei lasciarmi andare all’enfasi
dovuta alla pandemia in atto, ma sembra che l’umanità si stia dirigendo verso
una perigliosa escalation contro cui andrebbero date delle risposte
indifferibili. Benché fossero già note e lontanamente paragonabili all’attuale,
sono passati appena 3 anni dalla Chikungunya, un’infezione che era trasmessa
dalla zanzara tigre, soltanto 5 dall’infezione da virus Zika, che specialmente in
Sud America causava un’encefalite ai feti di madri che ne erano portatrici. 17
anni prima dell’infezione di covid-19, sempre in Cina ci furono dei casi di SARS,
una polmonite acuta causata da un altro coronavirus.

Maggiormente che in passato, i destini
dei comuni mortali sono appesi alle loro decisioni: già ci sarebbe da mettersi
le mani nei capelli per quanto appaiano uguali i leader delle principali potenze
mondiali quando dovrebbero rispondere o motivare le loro politiche insensate,
le cui conseguenze (guerre, disuguaglianze e surriscaldamento in primis)
possono riguardare l’intera umanità! Queste conseguenze insegnano come sia
importante anche nella vita comune essere previdenti per capire dove porta il
sentiero che si è liberi di seguire, riconoscendo una scelta infelice o dandone
conto agli altri e in modo sollecito per non perdere tempo prezioso.

Tra gli impegni personali, piacevoli o
meno, cui ognuno badava, non si sentiva per nulla l’assenza di un guaio così
surreale, che sembra descritto da una narrazione di fantascienza o rispolverato
da epoche lontane, ma che mi appare più somigliante a un’improvvisa guerra
mondiale che a un’inevitabile calamità naturale.

Prima del covid-19 nessuno si sognava
“coabitazioni” con ondate epidemiche “in agguato”, un’ipotesi in controtendenza
all’uso promiscuo degli ascensori nei grattacieli, con la consuetudine di
risiedere in dimore concepite con materiale antisismico e per un minor consumo
energetico, ma più piccole rispetto al passato, alle anomalie del
sovraffollamento delle carceri o dell’affitto in nero di camere doppie e triple
a studenti e lavoratori fuori sede, talora nella stessa casa del proprietario,
tutte condizioni che non pongono in debito conto i rischi legati al ridotto
distanziamento.

 Adesso
il consumo globale dei dispositivi monouso di protezione individuale potrebbe
comportare un bello tsunami ambientale. Guarda caso 50 anni dopo i mondiali di
calcio consegnati alla storia per “la parata e la partita del secolo”, il
Giappone rischia di rinunciare a ospitare i giochi con tante discipline sportive
meno seguite del calcio, tanto per fare un altro bell’esempio sulle conseguenze
indotte da questo grattacapo.

Se inopinatamente l’epicentro del
contagio fosse stata l’America, forse si sarebbero maggiormente sollevate le proteste
di negazionisti e “no vax” contro la propaganda epidemica e le scalpitanti
lobby farmaceutiche protese nella messa a punto di un vaccino al fine
d’incrementare i profitti e (nonostante la recessione globale conseguente alla
pandemia) le quotazioni azionarie, con la scusa di debellare il pernicioso
virus. A mio modesto parere non sarebbero dei ricavi da stigmatizzare poiché
compenserebbero i costi di sperimentazione e produzione. La questione principale
sarebbe la protezione o la convivenza dell’umanità dalla comparsa di nuove epidemie,
non la profilassi per debellarle.

Prendendo spunto dalla storia dello
scorso secolo, una soluzione per arginare al più presto il possibile tsunami
economico-epidemico internazionale da covid-19, parrebbe proprio affidata alla
produzione di un vaccino o alla scoperta di un’efficace terapia antivirale sul
modello di un progetto appoggiato 75 anni fa da Albert Einstein e sovvenzionato
con successo dagli americani per precedere i nazisti nella creazione di un
ordigno pericoloso. In assenza di un rimedio farmacologico o di un’improbabile prossima
attenuazione del virus, c’è il dubbio fondato che l’alternanza tra aperture e chiusure
possa permanere per un numero indefinito di anni: una prospettiva faticosamente
sostenibile da qualsiasi paese.

Al di là di tutto questo, un’emergenza dovrebbe
rientrare tra le prove da accettare e non da sminuire a degli incubi, perché il
cimentarsi con le difficoltà stimola a trovare soluzioni ogni volta migliori per
superarle. Einstein sosteneva che con le crisi emerge il meglio di noi. Il sottrarsi
dalle avversità equivale a trincerarsi dietro un dito, favorisce l’improvvisazione
nel fronteggiare le crisi di qualsiasi natura, la cui frequenza, in un mondo
globalizzato, potrebbe aumentare.

Dalla realtà che impone un qualsiasi
problema, non ci si può tirare indietro delegando solo alla politica o alla
scienza il compito di dare il meglio. Quando il presente è sgradevole, un
necessario presupposto sta nell’abituarsi a viverlo e non a subirlo. Ci fa
rivalutare la normalità, a considerarla una conquista da meritare, non una
condizione da pretendere.

Una lezione ce la danno proprio i giganti
cinesi, anche se al ruolo di prima potenza mondiale non sembra un mestiere cui possano
ambire.

Smerceranno formichieri, chirotteri e
altri animali selvatici potenziali vettori di agenti virali, disinteressandosi delle
avvisaglie di pericolose conseguenze, da cui comunque sanno difendersi. La loro
mentalità è lontana dai divulgatori delle scie chimiche, dalle narrazioni di negazionisti
e terrapiattisti. Applicano misure draconiane, trovano le risorse per costruire
gli ospedali in 10 giorni, una tempistica che farebbe immaginare che delle infrastrutture
come la TAV, il Mose o il ponte sullo stretto di Messina, giuste o sbagliate
che fossero, sarebbero progettate e messe in opera in circa 30 mesi, anziché in
30 e più anni, con benefiche ricadute sui costi. Sono supposizioni improponibili
nella realtà, ma dalle sembianze di metafore che scaturiscono dalla realtà.

Qualità e limiti dei paesi a Est del
muro di Berlino li avevo cominciati a conoscere attraverso i media quando la
distinzione tra Est e Ovest valeva più di quella tra Sud e Nord del mondo.

I loro campioni dello sport e della
danza esprimevano delle connaturate doti di sacrificio e dedizione, anche se negli
anni ’70 le atlete della DDR di nuoto e atletica leggera vincevano molte
medaglie olimpiche, ma al costo del ricorso più o meno abituale del doping.
Nella primavera del 1986, mentre Sting scalava le hit parade mondiali col brano
Russians, ci fu l’esplosione di un impianto della centrale nucleare di
Chernobyl. La loro rituale censura sull’informazione dovette cedere il passo
all’incalzante emissione delle radiazioni, la cui concentrazione era misurata
in nanocurie. Eppure all’epoca di quell’incidente Michael Gorbaciov già era da
più di un anno segretario del PCUS. Chissà quanto ha penato per consentire
all’URSS il cammino verso un disgelo con l’Occidente. Lo stesso si può dire per
Lech Walesa, il leader del primo sindacato polacco libero, o per il presidente
ceco Alexander Dubcek, quando i carri armati di Mosca occuparono Praga
nell’estate del 1968 per reprimere le istanze di libertà fomentate della
contestazione giovanile.

Per inciso, alcune battute sugli animali
vivi, quantunque fossero di “pessimo gusto”, m’erano sembrate indirizzate verso
quei mercati che, per quel poco che c’ho capito, sono una fra le tante comuni forme
di crudeltà sparse in tutto il mondo, degli abusi da cui s’iniziano a scorgere
i frutti. In fondo non è stato un caso se durante l’emergenza sanitaria è
divenuto un po’ più familiare l’aggettivo intensivo, anche in relazione ad un
serio problema. Di qualche battuta fuori luogo, oltreché indignarsene della
forma, sarebbe opportuno preoccuparsene del significato, anche in assenza di un
contesto che ne ha amplificato i risvolti svilenti, innanzitutto verso gli
animali.

A differenza dei giochi olimpici di quest’anno,
nell’estate prossima all’emissione della nube radioattiva di Chernobyl, si
svolsero i mondiali di calcio che passarono alla storia per “il gol del
secolo”. Purtroppo, su diffusione, persistenza e virulenza su scala mondiale
delle epidemie un ruolo decisivo parrebbe “giocarlo” l’inquinamento atmosferico,
un problema già noto per essere una conseguenza della deforestazione e all’origine
dei mutamenti climatici, difficile da contrastare senza il rispetto degli
accordi sul clima stabiliti dalle conferenze di Kyoto e Parigi.

Una maggiore sensibilità ambientale gioverebbe
nel contrastare le pandemie e di riflesso farebbe presupporre una migliore consapevolezza
nel prevenirle.

Si è rivelata inesorabilmente sensata la
morale del… pipistrello, il cui battito di ali può causare il “pandemonio” a
distanze impensate e coperte con altrettanta insospettabile rapidità.

In un mondo così tanto interconnesso da
produrre effetti a distanza dal luogo dove hanno origine le cause, da richiedere,
molto più che in passato, scelte ponderate ma tempestive (e delle infrastrutture
come la TAV quasi le impongono), la Cina comunque ha fatto passi da… gigante,
ancor più dei suoi stessi governanti.

Oggigiorno i cinesi e le altre cosiddette “tigri
asiatiche” dimostrano un’inaspettata capacità di guidare i cambiamenti, di
cavalcare (o meglio “galoppare”) il progresso e di non restarne assoggettati,
delle doti non sempre riscontrabili nel cosiddetto civilizzato occidente, che
aveva rimosso il concetto di morte e ripudiato l’idea che “il progresso porta con
sé sempre un po’ di regresso”, illusosi di stare in un pianeta sicuro, al
riparo dall’indiscussa certezza delle sue certificazioni di qualità e sicurezza,
così come in passato presumeva di possedere risorse illimitate. L’autosufficienza
può rivelarsi un grossolano errore di sopravvalutazione se viene demolita come
un castello di carte quando è colpita dal colpo di tosse provocato da un virus.

Proiettandosi
nel futuro, c’è già chi auspica che quando uscirà dall’obbligo di mascherine e dalle
“clausure” il mondo non continuerà a fare allegramente tutto come prima, sovvertendo
alcuni paradigmi: baderà più all’essenziale che al superfluo, a riciclare
anziché a sprecare, contro il “virus” dell’egoismo darà maggior interesse alla
collettività, s’impegnerà nella difesa dell’ambiente e della fauna
dall’inquinamento e dalle sostanze contaminanti, persino a discapito del
profitto o della produttività. In effetti la storia recente sembra insegnare
che i mutamenti di pensiero avvengono più sulla spinta delle crisi. Dopo il
terremoto in Irpinia del 1980 nacque la Protezione Civile, l’organizzazione
chiamata a intervenire sulle grandi emergenze; l’incidente di Chernobyl avrebbe
favorito la caduta del muro di Berlino e la ricerca di nuove fonti energetiche.

Se neppure l’Occidente è immune da
errori (più che dai virus) non può pretendere di giustificare i suoi e
giudicare quelli degli altri! Questa “sorpresa” può tradursi in antifona per aprire
gli occhi, anziché volgersi in scorciatoia per scaricare colpe in modo da fingere
o non fare nulla nel cambiare rotta, sospirando solo d’averla scampata! Rischia
di scottarsi di più coi propri guai, apparentemente meno spaventosi, ma non per
questo meno pericolosi: prima del covid-19 il futuro, grazie a quei vecchi paradigmi,
non sembrava serbare granché di buono!

Qualche settimana prima dell’esplosione della
pandemia, il governo aveva sancito la giornata del 25 marzo per omaggiare una
volta l’anno l’autore della Divina Commedia: un’occasione per coinvolgere le
scolaresche di ogni ordine e grado in iniziative per ricordarlo. La prima
giornata è invece passata sommessamente, con le attività didattiche svolte
rigorosamente a distanza.

Io l’ho vissuta con un senso di smarrimento, quello
stato d’animo che Dante Alighieri immaginò d’avere quando in modo del tutto inatteso
affrontò l’amara esperienza, che poco di più è morte, di percorrere una selva
infernale. Un passaggio forse necessario all’inizio del suo divino peregrinare.

Oltre a far fronte alla preoccupazione per quei momenti,
da un paio di giorni non ero in turno presso il laboratorio di Medicina
Trasfusionale dove presto servizio, avendo la necessità di prendere un breve periodo
di malattia. Ero in una fase che immaginavo di condividerla con tante persone
costrette a trascorrere intere giornate in casa, in attesa di un allentamento
delle restrizioni, alcune magari in quarantena col sospetto di essere state
contagiate dal virus e che in quel periodo di riposo sentivo particolarmente
vicine. Ero dibattuto tra impazienza di veder, prima o poi, rispuntare la luce del
Sole e delle altre stelle e apprensione nel non veder l’uscita da quell’amaro e
interminabile cammino. La stretta creata dalla pandemia tuttavia non concedeva
molto spazio alle facili emotività. Quel virus sembrava addirittura richiedere
uno stato d’animo di distacco e freddezza per i dati sulla diffusione dei
contagi.

Durante il lockdown su internet ascoltavo con
piacere dei brani musicali come quello di Max Gazzè riproposto, senza spostarsi
da casa, da 1200 musicisti per promuovere una raccolta fondi in favore della
Protezione Civile. In TV m’infondeva realmente fiducia per come sarebbe stato
il futuro, la periodica visione di un coro di 700 bambini che, sempre a
distanza, ma uniti da un messaggio di speranza, intonava la più famosa aria
della “Turandot” di Giacomo Puccini.

Questo scossone globale e gli immancabili
annunci di svolte epocali, danno anche a me lo spunto di avanzare una svolta,
secondo me benaugurante ad un ritorno più attivo all’agognata normalità. Nell’attesa
che “Andrà tutto bene”, un augurio diventato “virale” sui social, che a parer
mio evoca uno stato di fiduciosa ma sterile attesa, per reggere, tener testa o
vincere le prossime sfide, che passano dall’incombente crisi economica e
sociale, alla valorizzazione di progetti ecosostenibili e di idee volte a
migliorare la convivenza con emergenze di qualsiasi genere, pur senza conoscere
il loro idioma, non si potrebbe più laboriosamente saggiare l’esempio cinese di
zelo e dinamismo?

Affinché vada tutto per il meglio, anche nell’era post-pandemica
che arriverà, oggi appare una mossa per risollevare la qualità di vita senza
mettere a repentaglio la giustizia sociale alle prossime generazioni, da fare a
qualunque costo, ma senza il “sottocosto” di sforare i limiti sulle emissioni dei
gas serra (la cui concentrazione è misurata in ppm), che minaccerebbero i conquistati livelli di tutela della
salute per l’umanità e l’ambiente, di sottoporre al “controllo di qualità”
internet e gli altri mezzi d’informazione, di produrre nuove disuguaglianze, di
un futuro ancora disumano verso gli animali.

Roma, 14 settembre 2020                      –                        Arturo Mirelli

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