Dopo un lunghissimo periodo buio…il ritorno alla vita!

Dopo un lunghissimo periodo buio…il ritorno alla vita!

Siamo gli operatori del S.C. “Psichiatria” Area Nord del Dipartimento interaziendale di Salute Mentale ASL CN1 (educatori professionali, psicologi, psichiatri, infermieri, tecnici…), con le restrizioni del periodo di lockdown, che hanno imposto un isolamento forzato della popolazione e anche degli utenti dei servizi abbiamo ideato il progetto Broadcast – #iorestobugianen (io resto fermo/a casa).

Oltre ai quotidiani contatti telefonici e ad alcune visite domiciliari mirate abbiamo creato uno strumento per aiutare i pazienti, afferenti ai Centri di Salute Mentale di Fossano, Savigliano e Saluzzo e i Centri Diurni di Cussanio e Saluzzo, nella loro scansione del tempo e nel non sentirsi abbandonati, mantenendo un senso di appartenenza alla comunità.

Attraverso, quindi, la creazione di una Lista Broadcast su Whatsapp è stato offerta ai pazienti la possibilità di ricevere contenuti video ad orari predefiniti su tematiche differenti create dagli operatori e dai  volontari.

Lo  strumento Broadcast ha permesso la fruizione del prodotto ad un ampio numero di partecipanti (57 persone) che giornalmente vengono sollecitati con proposte video, mantenendo la privacy di tutti i partecipanti che rispondono soltanto all’amministratore della lista.

L’obiettivo del progetto è porsi come punto di riferimento per quanti vivono situazioni di disagio e solitudine affinché l’espressione web possa dar loro sollievo a tale condizione, nonché offrire una strategia per scandire la giornata con momenti di svago di tipo culturale, artistico e inerenti alle attività a cui aderiscono normalmente, riducendo l’ansia generata dalla situazione contingente, offrendo messaggi alternativi a quelli forniti dai notiziari quotidiani principalmente centrati sul tema dell’emergenza.

Il progetto, inoltre, ha permesso di garantire una continuità relazionale e offrire uno spazio di inclusione attraverso una comunità virtuale che rende possibile una partecipazione e stimola la condivisione dei propri pensieri e riflessioni.

Vuole essere un progetto innovativo che offre nuovi spunti per un lavoro educativo che da sempre pone l’accento sulla necessità di relazione e della giusta vicinanza; vogliamo essere resilienti e capaci di rinnovarci utilizzando nuovi strumenti di comunicazione, senza perdere le caratteristiche di una professione che fa della relazione il suo centro.

Il progetto è stato stimolo di cambiamento per operatori e pazienti attivando nuove abilità e occasioni per riscoprire se stessi, come narra nella sua storia che parte da lontano e la aiuta ad essere sempre più protagonista del suo processo di cura.

Sono una donna di mezza età, sono nata in Liguria. Ho avuto un’infanzia bella, ma un po’ complicata poiché mia mamma soffriva di depressione e stava sovente a letto, invece mio papà non si tirava mai indietro per passare del tempo con me. Ho cominciato a lavorare abbastanza presto verso i 17 anni, a fare la colf e poi ho cominciato a fare la baby sitter e mi ha dato molte soddisfazioni, perché lavoravo con i bambini che a me piacciono tanto. Insieme a questa famiglia ho fatto tanti viaggi, ho dei bei ricordi. Purtroppo a 21 anni ho perso mio papà a cui ero molto legata, è stato un momento molto traumatico. Da li ho avuto il primo ragazzo. Prima non avevo avuto fidanzati perché mio papà ero molto severo e non mi permetteva di uscire. Siamo usciti insieme per circa tre mesi e un giorno improvvisamente mi ha lasciata. Ho pianto tanto ero disperata, pensavo di non innamorarmi mai più. Dopo circa 7 mesi, durante una vacanza in Piemonte, con l’aiuto delle mie cugine, ho ricominciato ad uscire e in una serata in discoteca ho conosciuto mio marito e, incredula, piano piano ricominciai a rinnamorarmi.

Dopo qualche mese mi sono trasferita a vivere in Piemonte dalla zia per essere più vicina al mio compagno (attuale marito). Ho vissuto li per alcuni mesi e poi ho trovato lavoro come colf da una coppia di anziani e mi sono trovata bene, però poi improvvisamente anche lui è mancato ed è stato come perdere di nuovo un papà, avevo un grosso affetto nei suoi confronti. Nel frattempo ero andata a vivere da sola e ho continuato a lavorare in questa famiglia fino a quando mi sono sposata con mio marito, all’età di 29 anni. Dopo un mese sono rimasta incinta. Avevo ansia già in quel periodo, ma non veniva riconosciuta. Mi sentivo un gorgoglio allo stomaco, mi mancava il respiro e pensavo di avere qualcosa allo stomaco, invece era ansia. Quando è nata nostra figlia ero al settimo cielo, all’inizio è stata dura anche perché c’erano incomprensioni, io mi sono dedicata tutta a mia figlia, non me ne rendevo conto e a lui questa cosa faceva male. Stavo bene, ma avevo sempre queste crisi di ansia.

Ho fatto svariati lavori, continuavo ad avere delle crisi di ansia, ma ci convivevo. Non ero andata da nessun medico.

L’ultimo datore di lavoro non pagava con regolarità e in occasione del compleanno di mia figlia io temevo di non avere i soldi per organizzarle una bella festa e per parecchie notti ho continuato a non dormire perché ero in ansia. Non ho chiesto a mio marito perché un po’ non volevo e un po’ perché lui mi dava già qualcosa per le spese. Sono stata malissimo.

Già qualche tempo prima avevo iniziato ad andare al Consultorio per via delle sensazioni che mi facevano stare male e avevo dato un nome alla mia ansia “paura di morire” (piangevo tutto il giorno). Da li mi hanno consigliato di andare anche al CSM per farmi aiutare. Non volevo andare, ma mia suocera ha forzato  affinchè io andassi.

Ho iniziato a farmi seguire, ma non credevo alla cura perché avevo “l’ansia dell’ansia di prendere le pastiglie”. Nel 2009 il mio primo ricovero in repartino (senza TSO) , con tanta sofferenza ci fu il distacco da mia figlia che andò ad abitare con i nonni (i miei suoceri). Io ho sofferto tantissimo di questa cosa e anche lei. Dopo il ricovero però anch’io sono andata a vivere da mia suocera. Ero da mia suocera, ma non facevo niente tutto il giorno, stavo tutto il giorno a letto sul divano. Mio marito in quel periodo lo ricordo molto comprensivo. Nel periodo ci sono stati altri ricoveri. Nel 2010, ritorno a casa con frequenza al Centro Diurno e alla sera andavo a trovare mia figlia dai nonni.

Una mattina poco prima che venissero a prendermi le infermiere del CSM mi ero data fuoco ad un foulard attorno al collo, ma subito dopo mi sono resa conto di ciò che avevo fatto, ho cercato di spegnere le fiamme ma quando è arrivata l’infermiera avevo ancora il pigiamo bruciato addosso; quindi ho dovuto affrontare un nuovo ricovero di 5 mesi, e la Comunità per 2 anni. E’ stato un periodo brutto, non volevo fare le attività, non riuscivo  e non volevo, non volevo che mi rompessero le scatole, “volevo che mi lasciassero stare a non far niente”. Successivamente, mi hanno proposto il percorso in Gruppo Appartamento, facevo le attività al Centro Diurno (Yoga, cucina, piscina, uscite), ma stavo spesso coricata quando non ero impegnata.

Dopo circa un anno sono tornata a casa, ma è stato un periodo molto difficile. Ai 18 anni mia figlia ha voluto tornare ad abitare a casa con noi, ma io ancora non stavo bene.

Finchè nel 2020 all’inizio del Covid mio marito e mia figlia hanno iniziato a stare a casa e sono cambiate le nostre abitudini: si andava a dormire tardi e ci si alzava tardi la mattina, eravamo sempre insieme tutti i giorni. Ma per mio marito, che è un gran lavoratore, questo era un grande peso perché non avrebbe voluto vederci tutto il giorno a dormire. Lo ha detto più volte.

Un bel giorno, ma non so quando, ho deciso di alzarmi da quel maledetto divano e cominciare a fare qualcosa. All’inizio piccole cose, suggerite dai video degli operatori, ma mi gratificavano. Sono riuscita a spostare il pensiero. Prima non riuscivo. Le cose che facevo prima non mi davano soddisfazione.

Partendo da questo progetto ho avuto lo stimolo ad utilizzare maggiormente il cellulare, prima usavo quello di mia figlia e guardavo semplicemente i video, ma lei ha insistito che ne avessi uno per me. Io le parlavo dei video che vedevo. All’inizio pensavo di non averne bisogno, non mi interessa perché tanto ero a casa, non pensavo potessero essere uno stimolo, invece, dai primi video mi è subito venuta la voglia di guardarli. Se mi interessavano li riguardavo, ma dovevo sempre aspettare mia figlia, perché non avevo il cellulare.

Appena ho avuto un telefono mio, il primo pensiero è stato: “non riuscirò mai ad utilizzarlo”, poi è stata una bella soddisfazione quando sono riuscita a fare le prime cose da sola: potevo guardarmi i video che volevo e quando volevo. Ho avuto voglia di scoprire cose nuove, ora chiamo e messaggio anche con altri, famigliari e amici,sono invogliata a sapere come stanno le altre persone, gli altri mi dicono che mi sentono di nuovo presente, che sono contenti che sto meglio. Ho le energie per pensare agli altri.

In un rapporto quotidiano ci si da il buon giorno, la buona notte, con amici e parenti, il progetto Broadcast mi ha fatto venire voglia di incontrare le persone, di invogliare altre persone ad usare il telefono.

Durante il lockdown mi ha tenuto compagnia, era una costante, era sempre uno stimolo a fare delle cose, ad esprimermi, a mettermi in gioco e mi sono divertita. Ha acceso la mia curiosità e mi ha dato tanti stimoli nuovi.

Uso il telefono, ma come strumento per ripartire e creare relazioni.

Il Covid a qualcuno ha fatto bene!

Ho stupito tutti, anche me stessa!

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