Domenica delle Palme

Ieri sono stato in prima linea, a uno psichiatra non capita per forza come a un medico di pronto soccorso, a un pneumologo o all’anestesista, ma c’era una consulenza urgente da fare in area Covid ed è toccata a me. Per accedere alla zona contaminata bisogna sottoporsi alla procedura di vestizione che comprende due paia di guanti, mascherina, tuta integrale con cappuccio, cuffia, sovra scarpe e visiera. Una volta indossata l’armatura è vietato toccarsi, non si ha più accesso a nessuna parte del proprio corpo o a quanto si ha in tasca; le chiavi e il telefono non sono raggiungibili; non si beve; non si mangia; non si fuma; non si fa pipì. Questo per me non sarebbe stato gravoso, non dovevo passare molto tempo in quella condizione ma mi è stato chiaro cosa voleva dire passarci dodici ore. I suoni sono ovattati dentro cuffia, visiera e cappuccio, le voci contraffatte dalla mascherina; la comunicazione è ancora più difficile se si è un po’ sordi come me, però non dovevo essere il solo, molti tendevano a strillare, altri forse più esperti, sembravano assuefatti alla solitudine imposta dall’armatura e tacevano, parlavano quasi completamente coi gesti e i gli occhi. I pazienti sulle barelle della medicina d’urgenza erano quelli di sempre, vestiti cioè come il caso o la necessità li aveva colti nella loro intimità domestica: inermi. Mi guardavano a tratti dalle loro barelle e dai loro letti.  Attraversando lo spazio tra loro, ad ogni passo si acuiva la distanza che ci separava, certo colpa dei sensi appannati dalla bardatura anti COVID, ma la ragione contava poco, ed anzi, la consapevolezza aumentava la grandezza del mare che c’è sempre tra l’uomo malato e chi lo cura, tra il “come io mi sento” e lo sguardo clinico del medico, per quanto partecipe e presente con la sua umanità. In area COVID, la distanza del male diventa sacra, se ne celebra il rito.

Sono arrivato dal collega che aveva chiesto la consulenza, lo conoscevo, ma ho faticato qualche istante prima di collegare quella sagoma infagottata di bianco alla consueta presenza di lui che mi parlava da lontano – non era affatto lontano – ma il suono della sua voce lo percepivo come se parlasse volgendomi le spalle anche se ci guardavamo. Mi ha mostrato gli esami, raccontato la storia sommariamente ed è corso via, stavano arrivando due ambulanze!

Il mio paziente era una signora con la sfortuna di due linee di febbre insieme al suo delirio, che in questo caso contava molto meno della sua temperatura, che, come accade nel protocollo strutturato di oggi, si trova allo snodo decisionale del percorso che conduce prioritariamente all’area COVID, tutto il resto viene dopo. Il suo delirio l’aveva portata a bere quantità d’acqua enormi, tanta di quell’acqua che le ha diluito il sangue, i sali, e stava cominciando a gonfiargli tutte le cellule, anche quelle del cervello. L’unica cosa che si concentrava in tutto questo era il suo delirio che nella sofferenza cerebrale si faceva ancora meno accessibile. Nel frattempo è arrivato il suo tampone: negativo! non più COVID, altro percorso! Era mia! Punto!

Da quel momento in poi l’albero decisionale non avrebbe riguardato più quel mondo ma ci sarebbe voluto del tempo per organizzare il trasferimento nel mio reparto, non era una cosa semplice da fare dovendo passare da un percorso “sporco” ad uno “pulito” con una paziente “psichiatrica”!

È stato un tempo alieno, sconosciuto e di solitudine da cui ho guardato i volti dei malati che inevitabilmente si affastellavano in una corsia dell’urgenza ulteriormente costretta in spazi mutilati e inventati dalla necessità, ero anonimo e irriconoscibile nella mia armatura bianca, forse l’unica senza nome, tutte le altre lo portavano segnato sulle spalle e in petto col pennarello per potersi riconoscere. Innominato e senza sembianze, non m’era mai accaduto in quel luogo attraversato infinite volte. I volti dei pazienti avevano quasi sempre gli occhi chiusi come a difendersi da quella vista di luogo estremo in cui la speranza non era facile da trovare; corpi raggrumati d’angoscia e sagome bianche che s’affrettavano gridando o in assoluto silenzio, nessun sole naturale dall’esterno – tutto chiuso –  solo illuminazione artificiale di plafoniere dal soffitto, di led dagli infusori e monitor. L’aria era sotterranea, densa e vibrava cupa di tutti quei cuori che risuonavano insieme in un unico petto affannato.

  Ero sulla prima linea della terza guerra mondiale, niente di immaginabile neanche dopo trent’anni d’ospedale, ma mentre ero lì non pensavo a questo: aspettavo il trasferimento alternando il lucido programma delle azioni da compiere per gestire il caso tra abissi che si aprivano improvvisi come crepacci

… La guancia del vecchio al margine delle labbra scurite dalla fatica del respiro e incisa da quella barba di tre giorni impossibile da tagliare e rimasta indietro come quasi tutto il resto che non fosse, respirare.

Devo ripetere gli esami subito, gli elettroliti e monitorare la saturazione!

…Lei mi guarda cercando di conoscermi da dietro la sua e la mia visiera, è minuta, infagottata in una tuta troppo grande: dico il mio nome, annuisce con un sorriso stanco degli occhi, prosegue via. Le leggo il nome segnato sulla schiena, e dopo un tempo che pare eterno, mi è tornato alla memoria il suo volto di giovane infermiera che salutava allegra al marcatempo “Buongiorno Dottore!” e io che dentro me dicevo: che carina che sei, se t’avessi incontrato trent’anni fa c’avrei provato, e adesso potresti che essere mia figlia, m’imbarazzo di pensare ad altro che non sia la freschezza del tuo salutare … È lei?!

Altri tre passi ed è scomparsa in una stanza – non c’era più – e, in quell’istante d’assenza, si è rivelata l’enormità di quello che sta accadendo nel mondo: solida, concretamente fisica come lo sono i colpi e le ferite, non i pensieri.

Devo trovare le parole giuste per la signora, non farla sentire sempre più sola dentro tutta la sua acqua, fare in modo che in reparto accetti tutta la terapia che serve!

… Quanto dovranno resistere questi esseri umani che vedo qua dentro intorno a me, in questo tempo alieno mentre fuori c’è il sole – lo so, che fuori è un bel pomeriggio, l’ho visto prima d’entrare –  tutta la natura si sta svegliando come ogni anno, ma in una primavera più intensa nel silenzio delle strade e nella purezza della luce che protegge il fiorire del ciliegio in giardino. Questo Virus Incoronato è un grande scultore, toglie quello che c’è di troppo intono alla figura, come Michelangelo, e svela la gemma del ramo e il primo guizzo di rondine rivelandone l’ultima irriducibile bellezza. Ci saremo la prossima primavera a farne parte… o saremo ai piedi dell’opera in frammenti candidi, polvere di marmo ch’era in più… Non importa.

Il tempo e il percorso del trasferimento sono stati organizzati, azione!

Nella svestizione l’armatura si dissolveva nei rifiuti speciali restituendomi nella procedura il corpo di sempre nel mondo si sempre. La luce e il tempo alieno dell’area COVID restavano oltre la porta “uscita percorso sporco” che si richiudeva alle mie spalle. Ora sapevo cosa c’era oltre.

Ricoverato il ragazzone, messe in atto terapie e monitorizzazione dei parametri, lui è stabile, si fa trattare, posso passare le consegne e andarmene. S’è fatta notte, torno a casa, domani sarò di guardia, è la domenica delle palme: Un giorno alla volta, non guardare più avanti, non di più!

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